Il movimento contro la guerra e la
situazione in Siria. Un documento collettivo mette i piedi nel piatto
sulla funzione di una coerente opposizione alla guerra, anche quella
“umanitaria”.
La grave situazione in Siria, pone i
movimenti che in questi anni si sono battuti contro la guerra di
fronte a nuovi e vecchi problemi che producono lacerazioni,
immobilismo e un vuoto di iniziativa.
Siamo attivi in reti, realtà
politiche e movimenti che in questi anni – ed anche in questi mesi
– non hanno esitato a schierarsi contro l’escalation della guerra
umanitaria con cui l’alleanza tra potenze della Nato e
petromonarchie del Golfo, sta cercando di ridisegnare la mappa del
Medio Oriente.
a) Interessi convergenti e prospettive
divergenti al momento convivono dentro questa alleanza tra le
maggiori potenze della Nato e le potenze che governano “l’islam
politico”. E’ difficile non vedere il nesso tra
l’invasione/disgregazione della Libia, l’escalation in Siria, la
repressione saudita in Barhein e Yemen e i tentativi di
normalizzazione delle rivolte arabe lì dove sono state più
impetuose (Tunisia, Egitto). La dottrina del Dipartimento di Stato
Usa “Evolution but not Revolution” aveva decretato quello che
abbiamo sotto gli occhi come l'unico sbocco consentito della
Primavera Araba. Da queste gravi responsabilità è impossibile
tenere fuori le potenze dell'Unione Europea, in particolare Francia,
Gran Bretagna e Italia, che hanno prima condiviso l’aggressione
alla Libia, hanno mantenuto intatto il loro sostegno politico e
militare ad Israele ed oggi condividono la stessa politica di
destabilizzazione per la Siria.
b) I movimenti che si oppongono alla
guerra, in questi ultimi anni hanno dovuto fare i conti con diverse
difficoltà. La prima è stata la rimozione della guerra dall’agenda
politica dei movimenti e delle forze della sinistra o, peggio ancora,
una complice inerzia verso le aggressioni militari come quella in
Libia. Dalla “operazione di polizia internazionale in Iraq” del
1991 alla “guerra umanitaria in Jugoslavia” nel 1999 per finire
con le “guerre per la democrazia” del XXI Secolo, le guerre
asimmetriche scatenate dai primi anni Novanta in poi dalle coalizioni
di grandi potenze contro paesi più deboli (Iraq, Somalia,
Afghanistan, Jugoslavia, Costa d'Avorio, Libia), hanno sempre cercato
una legittimazione morale che poco a poco sembra essere penetrata
anche nella elaborazione e nel posizionamento di settori dei
movimenti pacifisti e contro la guerra. I sostenitori della
“guerra umanitaria” statunitensi ma non solo, stanno cercando di
definire una cornice legale agli interventi militari attraverso la
dottrina del “Rights to Protect” (R2P). Gli obiettivi di queste
guerre sono stati sempre presentati come la inevitabile rimozione di
capi di stato o di governi relativamente isolati o addirittura resi
invisi alla cosiddetta “comunità internazionale” sia per loro
responsabilità che per le martellanti campagne di demonizzazione
mediatiche e diplomatiche.
c) Saddam Hussein, Aydid,
Milosevic, il mullah Omar, Gbagbo, Gheddafi e adesso Assad, sono
stati al centro di una vasta operazione di cambiamento di regime che
è passata attraverso gli embarghi, i bombardamenti e le invasioni
militari da parte delle maggiori potenze della Nato e i loro alleati
regionali, operazioni su vasta scala che hanno disgregato paesi
immensamente più deboli perseguendo la “stabilità” degli
interessi occidentali attraverso la destabilizzazione violenta di
governi o regimi dissonanti. A prescindere dalle maggiori o minori
responsabilità di questi leader verso il benessere e la democrazia
dei loro popoli, le maggiori potenze hanno agito sistematicamente per
la loro rimozione violenta attraverso aggressioni militari e
imposizione al potere di nuovi gruppi dirigenti subordinati agli
interessi occidentali.
d) Seppure negli anni precedenti la
consapevolezza che la divisione tra “buoni e cattivi” non sia mai
stata una categoria limpida e definita – anzi è servita a
occultare le vere motivazioni delle guerre - nel nostro paese ci sono
stati movimenti di protesta che si sono opposti alla guerra
prescindendo dai soggetti in campo e che si sono posizionati sulla
base di una priorità: quel no alla guerra senza se e senza
ma che in alcuni momenti ha saputo essere elemento di identità
e mobilitazione straordinario. Sembra però che la coerenza con
questa impostazione si stia sempre più affievolendo e in alcuni casi
ribaltando. La macchina del consenso alle guerre ha visto infatti
crescere gli elementi di trasversalità. Prima erano solo personalità
della destra a sostenere gli interventi militari, adesso vi si
arruolano anche uomini e donne della sinistra. Questa difficoltà era
già emersa nel caso dell'aggressione militare alla Libia ed oggi si
rivela ancora più lacerante rispetto alla possibile escalation in
Siria.
e) Le iniziative contro la guerra che
ci sono state in questi mesi, seppur minoritarie, sono riuscite a
ostacolare
l’arruolamento attivo di alcuni settori pacifisti nella logica
della guerra umanitaria, hanno creato una polarizzazione
che in qualche modo ha esercitato un punto di tenuta di fronte alla
capito lazione politica,
culturale del pacifismo e dell'internazionalismo.
Ma la realtà sta incalzando tutte e tutti, ragione per cui è
necessario affrontare una discussione nel merito dei problemi che la
crisi in Siria
ci porrà davanti nei prossimi mesi.
Nel merito della situazione in Siria
1. In
tutte le guerre asimmetriche – che di fatto sono aggressioni
unilaterali - le potenze occidentali hanno sempre lavorato per
acutizzare le contraddizioni e i contrasti esistenti nei paesi
aggrediti. La questione semmai è che l'ingerenza esterna da parte
delle potenze della Nato e dei loro alleati ha agito sistematicamente
per una deflagrazione violenta dei contrasti interni che consentisse
poi l'intervento militare e servisse a legittimare la “guerra
umanitaria”. La guerra mediatica ha bisogno sempre di sangue,
orrori, cadaveri, stragi da gettare nella mischia e negli occhi
dell'opinione pubblica. Di solito le notizie su questo vengono
martellate nei primi venti giorni. Smentirle o dimostrarne la falsità
o la maggiore o minore manipolazione, diventa poi difficile se non
impossibile. Ciò significa che tutto viene inventato o manipolato?
No. Ma un conflitto interno senza ingerenze esterne può trovare una
soluzione negoziata, se le ingerenze esterne lavorano
sistematicamente per impedirla si arriva sempre ai massacri e poi
all'intervento militare “stabilizzatore”. Chiediamoci perchè
tutti i piani e gli accordi di pace in questi venti anni sono stati
fallire (ultimo in ordine di tempo quello di Kofi Annan sulla Siria).
Il loro fallimento è funzionale al fatto che l'unico negoziato
accettabile per le potenze occidentali è solo quello che prevede la
resa o l'uscita di scena – anche violenta – della componente
dissonante. Questo è quanto accaduto ed è facilmente verificabile
da tutti.
2. Le
soluzioni avanzate dalle sedi della concertazione internazionale
(Consiglio di Sicurezza dell’Onu, organizzazioni regionali come
Unione Africana, Lega Araba e Alba), non state capaci di opporsi alle
politiche di “cambiamento di regimi” decise dagli Usa o dalla Ue.
I leader dei regimi o dei governi rimossi, hanno cercato in più
occasioni di arrivare a compromessi con gli Usa o la Nato.
Per un verso è stata la loro perdizione, per un altro era una
strada sbarrata già dall'inizio. Più cercavano un compromesso e
maggiori diventavano le sanzioni adottate negli embarghi. Più si
concretizzavano le condizioni per una ricomposizione dei contrasti
interni e più esplodevano autobombe o omicidi mirati che riaprivano
il conflitto. Se l'unica soluzione proposta diventa il suicidio
politico o materiale di un leader o lo sgretolamento degli Stati,
qualsiasi negoziato diventa irrilevante.
3. Dalla
storia della Siria non sono rimovibili le modalità autoritarie con
cui in varie tappe è stata affrontata la domanda di cambiamento di
una parte della popolazione siriana. Non è possibile ritenere
che la leadership siriana sia l’unica a aver gestito in modo
autoritario le contraddizioni e le aspettative nel mondo arabo.
Questa caratteristica è comune a tutti i paesi del Medio Oriente ed
è una conseguenza dell'imposizione dello Stato di Israele nella
regione e un retaggio del colonialismo. Ciò non giustifica la
leadership siriana ma ci indica anche chiaramente come la sua
sostituzione non corrisponderebbe affatto ad un avanzamento
democratico o rivoluzionario per il popolo siriano. E’ sufficiente
guardare quale tipo di leadership si è impossessata del potere una
volta cacciati Mubarak in Egitto, Ben Alì in Tunisia, Gheddafi in
Libia o chi sta imponendo il tallone di ferro su Barhein, Yemen,
Oman. Sono paesi in cui c’è gente che ha lottato seriamente per
maggiore democrazia e diritti sociali più avanzati, ma chi ne sta
gestendo le aspettative sono le potenze della Nato, le petromonarchie
del Golfo e le componenti più reazionarie dell’islam politico. Le
componenti progressiste della Primavera Araba sono state – al
momento – isolate e sconfitte da questa alleanza tra potenze
occidentali e le varie correnti dell’islam politico.
4. Dentro
la crisi in corso in Siria, la leadership di Bashar El Assad ha
conosciuto due fasi: una prima in cui ha prevalso la consuetudine
autoritaria, una seconda in cui è cresciuto il peso politico delle
forze che spingono verso la democratizzazione. I risultati
delle ultime elezioni legislative non sono irrilevanti: ha votato il
59% della popolazione nonostante la guerra civile in corso in diverse
parti del paese (in Francia, in condizioni completamente diverse,
alle ultime elezioni ha votato il 53%, in Grecia nelle elezioni
più importanti degli ultimi decenni ha votato il 62%); per la prima
volta si è rotto il monopolio politico del partito di governo, il
Baath, e nuove forze sono entrate in Parlamento indicando questa
rottura come obiettivo pubblico e dichiarato, si è creato cioè
l'embrione di uno spazio politico reale per un processo di
democratizzazione del paese; le forze che si oppongono alla
leadership di Assad vedono prevalere le componenti armate e settarie,
un dato che si evidenzia nei massacri e attentati che vengono
acriticamente e sistematicamente addossati alle truppe siriane mentre
più fonti rivelano che così non è. Le forze di opposizione con una
visione progressista sono ridotte a ben poca cosa e non potranno che
essere stritolate dall’escalation in corso; infine, ma non per
importanza, l’ingerenza esterna è quella che sta facendo la
differenza. Non è più un mistero per nessuno che le forze
principali dell’opposizione ad Assad siano sostenute, armate e
finanziate dall’alleanza tra le potenze della Nato (Turchia
inclusa) e i petromonarchi di Arabia Saudita e Qatar. E’
un’alleanza già sperimentata in passato sia in Afghanistan che nei
Balcani e nel Caucaso, un’alleanza che si è rotta alla fine degli
anni Novanta e poi ricomposta dopo il discorso di Obama al Cairo che
annunciava e auspicava gli sconvolgimenti nel mondo arabo. Queste
forze e l’alleanza internazionale che li sostiene puntano
apertamente ad una guerra civile permanente e diffusa per
destabilizzare la Siria. I corridoi umanitari a ridosso del
confine con Turchia e Libano e la No fly zone, saranno il primo passo
per dotare di retrovie sicure i miliziani dell’Esercito Libero
Siriano, spezzare i collegamenti tra la Siria e i suoi alleati in
Libano (Hezbollah soprattutto), destabilizzare nuovamente il Libano e
rompere il Fronte della Resistenza anti-israeliana. Se il logoramento
e la destabilizzazione tramite la guerra civile permanente non
dovesse dare i risultati desiderati, è prevedibile un aumento
delle pressioni sulla Russia per arrivare ad un intervento militare
diretto delle potenze riunite nella coalizione ad hoc dei “Friends
of Syria” guidata dagli Usa ma con molti volonterosi partecipanti
come la Francia di Hollande o l’Italia di Monti e del ministro
Terzi.
5. In
questi anni, nelle mobilitazioni in Italia contro la guerra o per la
Palestina, abbiamo registrato ripetuti tentativi di gruppi e
personaggi della vecchia e nuova destra di aderire e partecipare alle
nostre manifestazioni. Un tentativo agevolato dall’abbassamento di
molte difese immunitarie nella sinistra e nei movimenti sul piano
dell’antifascismo ma anche dalla voragine politica lasciata aperta
dall’arruolamento di molta parte della sinistra dentro la logica
eurocentrista, dalla subalternità all’atlantismo e dalla
complicità – o al massimo dall’equidistanza – tra diritti dei
palestinesi e la politica di Israele. Se la sinistra e una parte dei
movimenti hanno liberato le piazze dalla mobilitazione contro la
guerra, dal sostegno alla resistenza palestinese e araba ed hanno
smarrito per strada la loro identità, è diventato molto più facile
l’affermazione di alcuni gruppi marginali della destra e della loro
chiave di lettura esclusivamente geopolitica ed eurasiatica della
crisi, dei conflitti e delle relazioni sociali intesi come lotta tra
potenze. I gruppi della destra veicolano un antiamericanismo erede
della sconfitta subita dal nazifascismo nella seconda guerra mondiale
e completamente avulso da ogni capacità di lettura dell’egemonia
imperialista sia nel suo versante statunitense che in quello europeo.
Una chiave di lettura sciovinista e reazionaria che nulla a che
vedere con una identità coerentemente anticapitalista ed
internazionalista. Non solo. La paura di gran parte della sinistra di
declinare la solidarietà con i palestinesi come antisionista e
anticolonialista, ha regalato a questa destra e alla sua declinazione
razzista e antiebraica uno spazio di iniziativa, cultura e
solidarietà che storicamente ha sempre appartenuto alle forze
progressiste. Se si cede su un punto decisivo si rischia di
capitolare poi su tutto lo scenario mediorientale. Se questo è già
visibile anche negli altri ambiti dell’agenda politica e sociale
nel nostro paese, è difficile immaginare che non avvenga anche sul
piano della mobilitazione contro la guerra e sui problemi
internazionali. Sulla Palestina e nella mobilitazione contro la
guerra abbiamo sempre respinto ogni tentativo di connivenza con i
gruppi della destra. Intendiamo continuare a farlo ma vogliamo anche
segnalare che – come sul piano sociale o giovanile – è l’assenza
di iniziative e la debole identità della sinistra a facilitare il
compito ai fascisti, non viceversa. E’ necessario dunque che alla
coerenza con le posizioni e il ruolo svolto dalle nostre reti,
associazioni, organizzazioni in questi venti anni e che ha visto
schierarci sempre contro la guerra senza se e senza ma, si affianchi
un recupero di identità e di contenuti.
f) La seconda difficoltà che
abbiamo dovuto registrare è stata quella di una lettura superficiale
del nesso tra la crisi che attanaglia le maggiori economie
capitaliste del mondo (Stati Uniti ed Unione Europea soprattutto) e
il ricorso alla guerra come strumento naturale della concertazione e
della competizione tra le varie potenze e i loro interessi
strategici. Una concertazione evidente quando si tratta di attaccare
e disgregare gli stati deboli (Libia, Jugoslavia, Afghanistan) , una
competizione quando si tratta di capitalizzare a proprio favore i
risultati delle aggressioni militari (Georgia, Iraq. Libia). Se il
colonialismo classico è andato all’assalto del Sud del mondo per
accaparrarsi le risorse, il neocolonialismo è andato a caccia di
forza lavoro a basso costo. Ma dentro la crisi di sistema che
attanaglia le maggiori economie capitaliste del mondo, queste due
dimensioni oggi si sono ricomposte nella loro sintesi più alta e
aggressiva. Alcuni di noi la definiscono come imperialismo, altri
come mondializzazione, comunque la si chiami oggi si è riaperta una
competizione a tutto campo per accaparrarsi il controllo di risorse,
forza lavoro, mercati e flussi finanziari. Questa conquista ha come
obiettivo soprattutto l'economia dei paesi emergenti e quelli in via
di sviluppo che molti ritengono poter essere l’unica via d’uscita
e valvola di sfogo per la crisi di civilizzazione capitalistica che
sta indebolendo Stati Uniti ed Unione Europea. In tale contesto, la
guerra come strumento della politica e dell’economia è all’ordine
del giorno. Se pensiamo di aver visto il massimo degli orrori in
questi anni, rischiamo di doverci abituare a spettacoli ben peggiori.
L’alleanza – non certo inedita – tra potenze occidentali,
petromonarchie e movimenti islamici ha rimesso in discussione molti
schemi, a conferma che il processo storico è in continua mutazione e
che limitarsi a fotografare la realtà senza coglierne le tendenze è
un errore che rischia di paralizzare l’analisi e l’azione
politica.
I firmatari di questo documento
declinano in modo diverso categorie come imperialismo,
mondializzazione, militarismo, disarmo, antisionismo,
anticapitalismo, pacifismo, solidarietà internazionale e
internazionalismo, ma convergono su un denominatore comune
sufficientemente chiaro nella lotta contro la guerra e le aggressioni
militari.
Per queste ragioni condividiamo l'idea
di promuovere:
- Il
percorso comune di riflessione che ha portato a questo documento
- La
costituzione di un patto di emergenza per essere pronti a scendere in
piazza se e quando ci sarà una escalation della Nato e dei suoi
alleati contro la Siria al quale chiediamo a tutti di partecipare
- l’impegno
ad un lavoro di informazione e controinformazione coordinato che
contrasti colpo su colpo e con ogni mezzo a disposizione la
manipolazione mediatica che spiana la strada a nuove “guerre
umanitarie”, anche in Siria
Sottoscrivono questo documento:
Rete No War
Rete Disarmiamoli
Militant
Rete dei Comunisti
Partito dei Comunisti Italiani
Forum contro le guerre
Comitato Palestina, Bologna
Comitato Palestina nel Cuore, Roma
Gruppo d'Azione per la Palestina ,
Parma
Collettivo Autorganizzato
Universitario, Napoli
Csa Vittoria, Milano
Alternativa
Federazione Giovani Comunisti
Forum Palestina
Disinformazione.it
Commenti
Posta un commento